Teatro

Massimo Ranieri: il mio Mackie imparentato coi guappi di Viviani

Massimo Ranieri: il mio Mackie imparentato coi guappi di Viviani

Mentre mi reco in taxi all’auditorium della RAI di Napoli dove, per l’ultimo giorno di prove prima di trasferirsi all’Albergo dei Poveri dove debutterà come Mackie Messer nell’ “Opera da tre soldi”, Massimo Ranieri mi ha dato appuntamento, mi telefona l’ufficio stampa del Napoli Teatro Festival per confermarmi l’orario, ed io faccio il nome, nel corso della telefonata, dell’artista. Subito dopo il tassista, senza preoccuparsi di far notare che mi aveva ascoltato, mi raccomanda di salutargli “Giovanni”, (Giovanni Calone, si sa, è il vero nome del Massimo nazionale), che, racconta, è stato suo grande amico d’infanzia
“Così è a Santa Lucia - mi dirà Massimo quando diligentemente gli porto i saluti, riferendosi al quartiere di Napoli dov’è nato e dove ha vissuto la sua infanzia - Ci ritroviamo tutti, cugini,nipoti, e pronipoti: insomma una grande famiglia.”
Quando si parla di te c’è sempre qualcuno, qui a Napoli, che dichiara di averti conosciuto da bambino, anzi di essere un tuo amico, e lo fa sempre con grande orgoglio, come se il tuo successo fosse in parte anche il suo:  tu sei uno di loro che “ce l’ha fatta”, in una  città in cui risulta spesso difficile andare avanti.
Sì, può darsi: uno che “ha fatt’ furtuna all’estero”, come diciamo noi, come diceva il povero compianto Massimo Troisi :”Basta che ti sposti di pochi chilometri e sei già considerato un emigrante.” E noi, purtroppo, ce la portiamo addosso questa cosa: io sono un emigrante a cui “è andata bene”, diciamo così.

Massimo Ranieri è qui, seduto nel suo camerino in una pausa di queste incessanti prove che precedono di pochi giorni il grande, attesissimo debutto. Il sorriso, gli occhi, sono sempre quelli di quel ragazzino che ricordo da bambino mi aveva colpito mentre cantava che auspicava un apocalittico incendio della città, pur di correre dalla ragazza la cui madre aveva costretto a lasciarlo. Un sorriso che parla di impudicizia e di innocenza, poco importa se ora, come ha pubblicamente dichiarato in tv, ha compiuto sessanta anni e sul viso c’ è quella famosa “ruga che non c’era”. Per me e per molti ha sempre “vent’anni”. Parlare con lui è divertente, si fanno voli pindarici nelle sue esperienze teatrali e televisive, oltre l’ingessato costrutto dell’intervista canonica.

Torni a Brecht a trenta anni dall’ “Anima buona del Sezuan”, in cui, diretto da Giorgio Strehler, interpretavi Yang Sun , personaggio che, per certi versi,  ricorda molto Mackie Messer. Nell’uno come nell’altro la linea di demarcazione tra bene e male è impercettibile.
Assolutamente sì. Mackie davvero ricorda molto Yang Sun, con la differenza che quest’ultimo era un diseredato, un operaio, perché era uno che non era riuscito nel suo mestiere: già ottanta anni fa tentava il suicidio perché non trovava lavoro. Infatti lo salva Shen Te mentre con la pistola in bocca lui si sta per sparare. Un’immagine molto forte, dura, violenta, reale per quel periodo storico, e che, ahimè, trent’anni fa, quando lo portammo in scena, si sperava che le cose migliorassero, ed invece, purtroppo, sono un po’ peggiorate. Poi, però, Yang Sun si rivela un mascalzone, diventa un lecchino, un “portaborse”.

Ed usa la seduzione, come Mackie con le sue donne, per farla franca.
Sì, i personaggi maschili di Brecht hanno spesso quest’allure di sciupafemmine. E Yang Sun, pur nella sua condizione sociale minima, nella sua povertà, era un fascinoso. Uno che vuole “volare”, ma simbolicamente, non solo, quindi pilotare un aereo, ed infatti dice di voler “alzarsi da questo mare di fango”.

Come sarà il Mackie Messer di Massimo Ranieri?
Io mi auguro ci sia una mia piccolissima impronta, e che come ci si ricorda il Mackie Messer di altri interpreti, si possa ricordare per qualche motivo anche il mio. Rispetto ad altri io ho la fortuna di essere napoletano, e Napoli è la terra di un grande drammaturgo quale Don Raffaele Viviani, che altri non è che il nostro Brecht: lui parla di diseredati, affamati, ladri, assassini, puttane. I guappi di Viviani non sono altro che i banditi di Brecht. Proprio quando interpretai “L’anima buona del Sezuan”  io ero lì a Milano e tiravo fuori la mia napoletanità, da non confondere con il “napoletanismo”,  Strehler mi diceva: “Quando l’hai pensata questa?” io mi meravigliavo e rispondevo.” Mi sono ispirato ad un personaggio di Viviani”, lui mi confermava “Tienila, questa è la chiave giusta”. Io, quindi, facevo Brecht pensando a Viviani.  Yang Sun ero io ragazzino, un povero come i personaggi di Viviani

Da sempre si pensa che tu sia l’interprete ideale di questo personaggio.
Tutti lo pensavano, l’unico che sembrava far  fatica a crederci ero proprio io. Ma, tutto sommato, lo confesso, ci credevo. Ma sono molto fortunato, perché Mackie assomiglia al Tore di Viviani (il personaggio che interpretò, al suo debutto in teatro, in “Napoli notte e giorno” di Giuseppe Patroni, Griffi ndr). Il mio compianto maestro (Patroni Griffi, ndr) lo diceva sempre:”Ma tu ‘e ‘a fa’ Mackie Messer” (“Ma tu devi interpretare M.M.”, ndr), ed io, che a quei tempi nemmeno ero entrato in un teatro, non sapevo di cosa parlasse, lo sentivo insistere “Lo devi fare tu, diglielo, diglielo al tuo maestro”  (Giorgio Strehler, ndr).  E non a caso, dopo qualche tempo, circa quindici anni fa, avrei dovuto farlo proprio con Giorgio. Me lo voleva far fare a Parigi, tutto in francese, mi chiese se conoscessi la lingua, io dissi che per quello che avevo studiato qualcosa la conoscevo, poi, invece, lo mise in scena con Michael Piccoli. Quindi mi ero rassegnato al fatto che probabilmente non lo avrei mai interpretato.

Dopo Liolà e Rinaldo, un altro personaggio che t’accomuna con il Grande Domenico Modugno. Che ricordo hai di lui?
Mimmo,  io lo chiamo Mimmo affettuosamente, non riesco a chiamarlo Domenico Modugno, è stato il mio faro e credo, mi auguro, lo sia stato per tutti noi che facciamo questo mestiere, per la personalità, per il carisma che noi non abbiamo, in confronto a lui, ma soprattutto per la generosità, la volontà, la forza e la caparbietà di affrontare questo mestiere. Uomo geniale, riconosciuto in tutti, non solo da noi, e non solo per “Volare”. Io ho avuto il suo pianista come mio produttore, che faceva le tournee in giro per il mondo, pianoforte e voce,  e mi raccontava che venivano giù i teatri, dalla Paupasia a Capo Horn. Io l’ho studiato perché ho avuto il piacere di stare con lui in più di una Canzonissima, per cui vedevo la sua preparazione prima di entrare in scena, nei camerini, o dietro le quinte, e lì per lì mi sembrava paradossale che un uomo di così tale fama e bravura stesse ancora lì, a schiarirsi la voce, che fosse teso, a si controllasse allo specchio perché tutto stesse a posto, il che era anche una forma di rispetto per il pubblico. Io l’avevo conosciuto al Festival di Napoli del 1964, l’anno di “Tu sì na cosa grande”, al Teatro Politeama, vicino casa mia, al Pallonetto di Santa Lucia. Io ragazzino andavo a vedere le prove dei miei idoli, e quando gliel’ho ricordato, anni dopo, lui è stato carino, ha detto “Si mi ricordo”, ma magari non era vero.

Patroni Griffi, Strehelr, ma anche Romolo Valli, Giorgio De Lullo, Maurizio Scaparro questi ed altri i grandi maestri che hai incontrato per la tua strada. Oggi ci sono dei maestri così grandi e quali sono?
No, così illustri non ce ne sono. Non ci sono maestri come quelli che haI menzionato come anche il grande Franco Enriquez: maestri che insegnavano all’attore il modo di usare la voce o di porgere una battuta, il suo significato, ma anche il modo di farla arrivare in ultima fila. Ricordo la voce di De Lullo che dal fondo sala gridava “Non sento nulla!!” se la battuta non era emessa nel modo giusto.

Adesso gli attori quasi sempre recitano microfonati.
Già. Io credo che la grande responsabilità l’abbia il piccolo schermo. Non voglio fare di tutta l’erba un fascio, io I giovani li amo follemente e vorrei campare mille anni come Matusalemme per continuare a vivere con loro e fargli capire la bellezza di dire una battuta, il concetto, il perché l’autore l’ha scritta così, quando vedo da parte loro la voglia di imparare, migliorare, crescere. Poi, però, c’è una bella fetta di giovani che ha la chance di fare televisione, cosa che li distrae, li allontana e li corrompe. Allora succede che diventano “nomini” televisivi, ma senza alcuna preparazione teatrale. E molte volte i cast si fanno intorno ai nomi conosciuti in televisione, ma il pubblico non lo freghi, ed in teatro non ci va.  Il giovane che fa televisione non studia più, o lo fa pochissimo, come quando, negli anni ’90, c’era il delirio del varietà televisivo, e bastavano sei mesi alla sbarra per diventare show girl, ma poi non riuscivano neanche a fare due giri, e finivano lì.

In prova ho notato una grande collaborazione coi tuoi giovani compagni di lavoro, cosa inconsueta per un capocomico
Io ho sempre detto ai ragazzi: se tu porti una risata in scena è tutto di guadagnato per tutto lo spettacolo, è finita, per me, l’epoca dei capocomici che tagliavano le battute se qualcun altro riusciva a  riscuotere consensi. Ma quello era il periodo del dopoguerra, c’era, oltre che ad una fame reale, una gran fame di affermazione. Ora io credo in un gioco di squadra, si gioca  dall’1 all’11 (facendo finta che la numerazione sia ancora quella di una volta), fino al 12 e 13 in panchina, il premio partita lo vinciamo tutti, anche le riserve.

Una carriera simile, quali sorprese può ancora riservarti?
Io quando sono in scena tento sempre di cercare quell’angolino di cui prendere ancora possesso: il palcoscenico è grande, è immenso, e qualche punto inesplorato lo trovo sempre!